LA CAMPAGNA D’ITALIA
E LA REPUBBLICA NAPOLETANA DEL 1799
(di Armando Orlando)
La proclamazione della repubblica una e indivisibile, avvenuta in Francia nel 1792, e l'esecuzione del re Luigi XVI e di sua moglie, l'austriaca Maria Antonietta, nel 1793, avevano suscitato la violenta reazione di tutta l'Europa monarchica, che vedeva in quegli episodi la fine del principio di sovranità per diritto divino su cui si reggevano le dinastie dell’epoca.
Si formò allora la prima coalizione e contro la Francia scesero in campo Austria, Prussia, Inghilterra, Russia, Olanda, Spagna, Portogallo e, in Italia, Piemonte, Granducato di Toscana, Stato Pontificio e Regno di Napoli. Ma nel 1795 trattati di pace furono sottoscritti con Olanda, Prussia e Spagna, e a proseguire la guerra contro la Francia rimasero solamente Austria e Inghilterra.
Mentre le truppe francesi erano occupate a portare l'attacco all'Austria attraverso la Germania, Parigi studiò un piano per costringere Vienna a dividere il suo esercito, e il Direttorio decise così di aprire il fronte italiano.
Intanto in Italia erano entrate in scena nuove figure politiche, che si ispiravano agli ideali della Rivoluzione del 1789 e che il linguaggio corrente del tempo cominciò a chiamare “giacobini”. Nella Penisola il giacobinismo si era diffuso attraverso logge massoniche e club rivoluzionari e nel Sud la rete organizzativa si era allargata fino ad acquistare una fisionomia rivoluzionaria sia a Napoli che in Calabria. Col passare degli anni i gruppi patriottici italiani erano cresciuti di numero e qualcuno cominciava ad accarezzare l’idea di una insurrezione patriottica indipendente, quando Napoleone Buonaparte iniziò la campagna d'Italia.
Napoleone era allora uno squattrinato uomo d'armi e comandava le forze cittadine di Parigi quando, trentasei ore dopo il matrimonio con Giuseppina Beauharnais, celebrato il 9 marzo 1796, lasciò la casa di Rue Chantereine e salì su una corriera che lo portò ad assumere il comando di un corpo di spedizione pronto a varcare le Alpi. Trovò 60 cannoni e 30.000 uomini male armati e male equipaggiati, chiamati ad affrontare 25.000 soldati piemontesi e 35.000 austriaci provvisti di 150 cannoni.
Il primo stato italiano a cadere è il regno di Sardegna ed il 12 aprile 1796 le cronache parlano di un generale giovane e sconosciuto che, varcato il colle di Cadibona, sconfigge gli austriaci a Montenotte; il giorno dopo i piemontesi sono battuti a Millesimo; il 16 gli austriaci sono nuovamente sconfitti a Dego e il 22 i piemontesi cadono a Mondovì. I corrieri portavano a Torino le notizie del disastro ed il re appariva disorientato, ma Napoleone era interessato più ad inseguire gli austriaci nella Lombardia che ad occupare la capitale del regno di Sardegna, e si arrivò all’armistizio di Cherasco, firmato il 27 aprile da Vittorio Amedeo di Savoia, e poi alla pace di Parigi, che consegnò alla Francia la città di Nizza e l’intera Savoia.
In molti centri del regno sabaudo cominciarono allora a sorgere gli alberi della libertà; a Biella, Racconigi, Chieri e Moncalieri i tentativi di sollevazione sono repressi dalle forze fedeli ai Savoia; a Torino, sotto la spinta dei patrioti piemontesi, è proclamata la repubblica Subalpina e molti nobili cercano la salvezza con la fuga.
Napoleone incoraggiò i suoi uomini e disse: “Soldati, in quindici giorni voi avete riportato sei vittorie, conquistato 21 bandiere e 55 cannoni, avete fatto 15 mila prigionieri e ucciso o ferito più di 10 mila uomini… Avete vinto battaglie senza cannoni, attraversato fiumi senza ponti, avete fatto marce forzate senza scarpe… Vi siano rese grazie, soldati! Ma voi non avete fatto ancora nulla, perché altro ancora vi resta da fare..”
Lungo l'avanzata, il 10 maggio, al ponte dell'Adda presso Lodi, le baionette francesi inchiodarono ai loro pezzi gli artiglieri austriaci e, dopo aver attraversato il fiume, i soldati cominciarono a chiamare il loro generale "il piccolo caporale". Da quel giorno, scrive Hilaire Belloc, la nuova grafia francese del suo nome diventò universale, ed egli per i suoi uomini non era più Buonaparte, ma il loro Bonaparte.
Quando, il 15 maggio 1796, Napoleone entra a Milano al comando dell'armata d'Italia, è un giovane di 27 anni, ambizioso e consapevole della sua forza, rimasto affascinato da come si presentava allora la città.
La grande opera del catasto ultimata intorno al 1750, vanto dello Stato di Milano e modello insuperato in Europa, la lotta contro i particolarismi e i privilegi per l’affermazione dell’autorità centrale sui corpi intermedi e per la formazione di una classe di burocrati reclutata col criterio del merito e non più della nascita, l’assimilazione da parte della società civile di nuovi modelli (il Teatro in costruzione, su disegno di Giuseppe Piermarini, nell'area dell'antica chiesa di S. Maria alla Scala; l’edificio della Villa Reale di Leopold Pollack) e di nuovi comportamenti erano stati fattori che avevano fatto uscire la capitale lombarda dall’attitudine al fasto e all’etichetta introdotti dagli spagnoli. “Col superamento dell’assetto gerarchico e corporativo della società, con la diffusione delle nuove idee e delle nuove tendenze – scrive Carlo Capra – erano state anche poste le premesse per la rapida maturazione, in una parte del ceto colto, di orientamenti liberali e di sentimenti indipendentistici”.
Ma il generale non si ferma in Lombardia, anche perchè l'Austria, a nord delle Alpi, stava per respingere i soldati della Rivoluzione. All'inizio di ottobre 1796 gli austriaci destinano intere armate per la ripresa della lotta in Italia; molti sono convinti che la Penisola sarà ancora una volta la tomba dei francesi e le sue terre rischiano di diventare il principale campo di battaglia di una guerra che vedeva la Francia rivoluzionaria combattere contro i principali Stati europei.
Il 17 novembre 1796, sul ponte di Arcole, alla sinistra del fiume Adige ed in provincia di Verona, dopo il fallimento del primo assalto francese, Bonaparte in persona salì sull'argine con la bandiera in mano e guidò il secondo assalto, incitando gli uomini a compiere un'impresa che avrebbe significato la vittoria definitiva. La sua figura alla testa dell'assalto entrò nella storia e l'episodio di Arcole passò direttamente dalla cronaca alla leggenda.
Dopo Arcole, il possesso della Lombardia era assicurato e la strada per assediare Mantova era spianata. Battuti tutti gli eserciti austriaci calati dalle Alpi, occupati i ducati padani ed il porto di Livorno, le truppe francesi mossero verso il Centro dell’Italia ed il 19 febbraio 1797 il papa Pio VI fu costretto a firmare la Pace di Tolentino, con la quale furono cedute alla Francia le legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna. Il 2 febbraio la piazza di Mantova si era arresa ed era caduta, così, l’ultima roccaforte degli austriaci in Lombardia. A maggio fu conquistato pure il territorio della repubblica di Venezia, che sarà parzialmente ceduto all'Austria dopo la Pace di Campoformio del 17 ottobre 1797. In virtù di quel trattato, annota Montanelli, lo Stato Veneto cessava di esistere, spartito tra Francia, Austria e repubblica Cisalpina, e quando le truppe austriache fecero il loro ingresso a Venezia, il doloro spezzò il cuore del vecchio doge Manin: con un tratto di penna, testimonia lo scrittore di Fucecchio, quattordici secoli di storia e di gloria erano stati cancellati.
Intanto nell'Italia occupata dai francesi i deputati delle città di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia avevano proclamato, il 16 ottobre 1796, la repubblica Cispadana ed avevano bandito l'arruolamento di 3.000 uomini nella Legione Italiana, mentre le province lombarde dell’ex Ducato austriaco di Milano erano state raggruppate nella repubblica Transpadana. Nello stesso periodo era stata istituita l'Amministrazione Generale della Lombardia ed era stato reclutato un esercito di 3.500 uomini riuniti nella Legione Lombarda Cacciatori a Cavallo.
La costituzione della repubblica Cispadana rappresentò il primo esperimento di ordinamento statale introdotto in Italia durante il “triennio giacobino”; fu un fatto spontaneo, che mise in evidenza il tentativo di superamento di logiche autonomistiche e di interessi particolari e che testimoniò l’esistenza di una coscienza politica matura. Mentre l’Amministrazione Generale della Lombardia fu il primo nucleo di un governo libero nell’Italia occupata dai francesi.
I volontari accorsi a fianco dei soldati francesi combatterono contro l'Austria issando per la prima volta una bandiera con i colori bianco, rosso e verde; e per la prima volta, scrive Montanelli, italiani di Stati diversi e fra loro tradizionalmente ostili agivano in nome della volontà popolare, si riconoscevano fratelli e si attribuivano un'etichetta nazionale.
Le prime coccarde tricolori erano apparse il 13 dicembre 1794 a Bologna, preparate dagli studenti Luigi Zambroni e Giovanni Battista de Rolandis; i due erano stati arrestati e processati dallo Stato Pontificio: Zambroni morì in cella forse strangolato dalla polizia, de Rolandis fu impiccato nel 1796.
Il tricolore italiano quale bandiera nazionale nasce il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta "che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti". In sette mesi, dal luglio 1796 al febbraio 1797, il generale Bonaparte era riuscito a piegare l'Austria e ad umiliare i colleghi francesi che non riuscivano a portare a termine la loro campagna in Germania, e nell'Italia attraversata dalle armate napoleoniche le numerose repubbliche di ispirazione giacobina, che avevano soppiantato gli antichi Stati assoluti, cominciarono ad adottare quasi tutte bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, con varianti di colore, chiaramente ispirate al modello francese del 1790.
Fu così che i reparti militari "italiani", costituiti per affiancare l'esercito di Bonaparte, ebbero stendardi che riproponevano la medesima foggia.
I colori bianco, rosso e verde, scelti per i vessilli reggimentali della Legione Lombarda, erano fortemente radicati nel patrimonio collettivo di quella regione: il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1782, le uniformi della Guardia Civica milanese. Gli stessi colori, poi, furono adottati anche negli stendardi della Legione Italiana, che raccoglieva i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, e fu probabilmente questo il motivo che spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera.
Al centro della fascia bianca era collocato lo stemma della Repubblica, una faretra contenente quattro frecce, che simboleggiano l’unione delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, con attorno un serto di alloro. Pochi mesi dopo, il 9 luglio 1797, le due repubbliche italiane, la Cispadana e la Transpadana, furono fuse nella repubblica Cisalpina, ingrandita poi con le ex province veneziane di Brescia, Bergamo, Crema e con la Valtellina sottratta alla Svizzera, e l’11 maggio 1798 il Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina decreta che “la bandiera della Nazione Cisalpina è formata di tre bande parallele all’asta, la prossima all’asta verde, la successiva bianca, la terza rossa”.
E mentre la repubblica Cisalpina arrivava a contare tre milioni e mezzo di abitanti, nel dicembre 1797 la repubblica di Genova fu ribattezzata repubblica Ligure e nel 1798 le truppe francesi occuparono lo Stato Pontificio. Il 15 febbraio 1798 in Campidoglio il generale Louis-Alexandre Berthier proclamò la Repubblica Romana e decretò l’abolizione del potere temporale. Uno dei primi atti dei francesi è quello di liberare Suzette Labrousse, poetessa e guaritrice, arrivata a Roma nel 1792 per convincere il Papa a rinunciare al potere temporale e a tornare ad essere soltanto il capo spirituale della Chiesa, e per questo rinchiusa nelle carceri di Castel Sant'Angelo.
Roma divenne un laboratorio di esperimenti politici e religiosi (“Nessuno può essere buon Cristiano, se non è buon Patriota”, diceva la Labrousse), e nella città senza Papa cominciarono a nascere il mito dell’antichità e l’esigenza di una nuova religione civile, con un misto di cristianesimo rigenerato e di patriottismo democratico.
In Piemonte il re Carlo Emanuele di Savoia fu costretto a capitolare e l’8 dicembre 1798, in cambio della libertà di rifugiarsi in Sardegna, firmò un proclama con il quale invitava i sudditi ad obbedire alle autorità militari francesi. Lungo la strada Carlo Emanuele e Maria Clotilde incontrarono Pio VI, che i francesi avevano cacciato da Roma, e, partiti da Livorno, i due sovrani sbarcarono a Cagliari la mattina del 3 marzo 1799.
Intanto la Svizzera è trasformata in repubblica Elvetica e Ginevra viene annessa alla Francia. L’opera di conquista degli eserciti rivoluzionari francesi non si ferma e nel mese di luglio 1798 Napoleone giunge ai piedi delle Piramidi, in Egitto.
Sposate le idee di libertà e uguaglianza provenienti da oltre le Alpi, in tutte le regioni del vecchio regno di Napoli un numero sempre crescente di cittadini cominciò a volgere gli occhi alla Francia rivoluzionaria, e Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, scriverà: "Quando io ripenso a quei calabresi ed abruzzesi, basilicatesi e pugliesi, e napoletani di Napoli, che agitavano ardenti problemi politici nei giornali repubblicani della Cisalpina e in opuscoli e fogli volanti, che entravano nelle legioni italiane allora formate, che prendevano servizio presso i francesi o presso i nuovi governi democratici, e quando leggo i documenti delle relazioni e amicizie che essi allora legarono con lombardi e piemontesi e liguri e veneti, dico tra me: Ecco la nascita dell'Italia moderna, della nuova Italia, dell'Italia nostra".
Nel Sud la pressione delle truppe francesi aveva spinto Ferdinando di Borbone a stipulare il 10 ottobre 1796 un armistizio in base al quale si manteneva “pace, amicizia e buona intelligenza tra il re delle Due Sicilie e la Repubblica francese”; ma dopo la nascita della Repubblica romana nel vicino Stato Pontificio il re cominciò ad inseguire il sogno di un ingrandimento territoriale del suo regno a spese delle terre del Vaticano.
Dopo la vittoria dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson del 1° agosto 1798 e la conseguente sconfitta della flotta francese nella battaglia navale di Abukir, gli inglesi bloccarono il corpo di spedizione di Napoleone in Egitto e la Corte di Napoli, infrangendo lo stato di pace vigente con la Francia, non esitò a concedere a Nelson il permesso di entrare con la flotta nel porto per riparare i vascelli danneggiati. L’ammiraglio (accompagnato da una coppia importante, l’ambasciatore d’Inghilterra Hamilton con la bella moglie Emma Lyons, di 37 anni) fu accolto come un eroe e questi avvenimenti ruppero la neutralità con i francesi. La Sicilia divenne la base delle operazioni della flotta inglese per il controllo del Mediterraneo e Ferdinando IV, forte di 70 mila uomini, schierò l’esercito napoletano sulle frontiere settentrionali del Regno, pronto a dare battaglia.
In un dispaccio del 24 luglio 1798 il re di Napoli e Sicilia aveva fatto scrivere che tutti i cittadini nascevano soldati ed aveva ordinato la leva generale. I coscritti furono quarantamila ed il 23 novembre l’esercito borbonico, comandato dal generale austriaco Karl von Mack, varcò il confine pontificio e si diresse verso il territorio romano occupato dai francesi. Le colonne si mossero su strade parallele senza incontrare resistenza ed il 29 novembre 1798 Ferdinando di Borbone fece il suo ingresso a Palazzo Farnese, dichiarando la fine della repubblica giacobina proclamata a febbraio.
Sul Quirinale sventolava la bandiera del regno di Napoli ed i francesi furono costretti ad asserragliarsi con un piccolo drappello in Castel Sant’Angelo; là dove erano sorti gli alberi della libertà fu innalzata la Croce. Il 30 novembre Ferdinando di Borbone rivolse ai "possessori di beni di suolo" un preciso invito "ad eccitare efficacemente i propri lavoratori ad arruolarsi senza ritardo"; ma nelle province la leva aveva provocato un malcontento generale e gli appelli rimasero privi di efficacia. Le truppe francesi del generale Giovanni Stefano Championnet, riorganizzate e disposte per l'attacco, costrinsero Ferdinando ad abbandonare Roma per ritornare a Napoli. Il 4 dicembre 1798 il re borbone aderì ad uno schieramento che comprendeva Russia ed Inghilterra e dichiarò guerra alla Francia, ma il giorno dopo, a Civita Castellana, l’armata francese sconfisse il suo esercito e costrinse il sovrano alla ritirata.
Con la formazione della seconda coalizione, composta da Russia, Inghilterra, regno di Napoli e di Sicilia, Austria, Germania meridionale e Svezia, il conflitto era diventato generale; l’esercito francese aveva ottenuto già i primi successi, il Piemonte era occupato militarmente e annesso alla Francia, a Roma era stata restaurata la repubblica ed il Napoletano si apprestava ad essere invaso dai francesi.
Il 21 dicembre 1798 la famiglia reale borbonica fu presa in consegna dall'ammiraglio Orazio Nelson, vincitore dei Francesi nella baia di Abukir, ed il 23 i sovrani napoletani, a bordo della nave inglese Vanguard, salparono alla volta della Sicilia portandosi dietro oggetti di valore e la moneta dei Banchi pubblici e della Zecca e lasciando come Vicario Generale Francesco Pignatelli dei principi di Strongoli.
“Furono imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili più preziosi de’ palazzi di Caserta e di Napoli e le rarità più pregevoli de’ musei di Portici e Capodimonte, le gioie della corona e venti milioni e forse più di moneta e metalli preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella miseria”, scrive Vincenzo Cuoco. Il 28 dicembre, al largo di Posillipo, per evitare che la flotta del Regno cadesse nelle mani dei francesi, furono distrutte pure 120 barche cannoniere, e nella notte tra l’8 ed il 9 gennaio 1799 vennero incendiati altri due vascelli e tre piccoli legni; dall’incendio della flotta borbonica i patrioti riuscirono a salvare soltanto la fregata Cerere, quattro galeotte, due brigantini e due corvette.
Dopo la partenza della Corte, Napoli conobbe un periodo di disordine e di anarchia ed il popolo, sceso nelle strade, cominciò ad opporre ai francesi una disperata resistenza. In questa occasione la gente partenopea prese a combattere una propria guerra, in difesa di una religione e di una identità nazionale che il re aveva tradito con la fuga.
Il 15 gennaio il popolo aveva assalito le carceri e liberato i detenuti, ed il giorno dopo pure il vicario generale era stato costretto a fuggire a Palermo. La battaglia durò dal 21 al 23 gennaio 1799 e la plebe gridava: “viva la Santa Fede, viva San Gennaro, morte ai giacobini”. E mentre le truppe francesi del generale Championnet erano impegnate a vincere la resistenza dei lazzaroni, i giacobini ed i patrioti napoletani, nella notte tra il 19 ed il 20 gennaio, si impadronirono di Castel Sant’Elmo, un forte militare eretto sul colle più alto della città, ed il 21 proclamarono la Repubblica Napoletana, issando il vessillo tricolore, giallo, rosso e turchino.
E’ il 22 gennaio 1799, e Benedetto Croce dirà che quell’evento segnò l’atto di nascita del Risorgimento italiano. Ma la Repubblica Napoletana, scrive Ruggero Guarini, non nacque da una rivoluzione: fu la conquista di un pezzo del regno di Napoli da parte delle truppe napoleoniche, che non esitarono a massacrare migliaia di popolani e contadini che avevano deciso di resistere ai francesi. Per le vie di Napoli la lotta fu aspra, la resistenza durò 67 ore ed alla fine si contarono mille morti francesi e più di tremila napoletani.
Ma non è solo il massacro dei lazzaroni napoletani a gettare un’ombra sulla prima Campagna d’Italia. Il 28 marzo 1796 Napoleone aveva lanciato un proclama ai suoi soldati: “Voi siete nudi e affamati… Io voglio condurvi nelle più fertili pianure del mondo. Ricche province e grandi città cadranno nelle vostre mani. Voi vi troverete gloria, onore e ricchezza...”. Ma, precisa Montanelli, pare che l'ultima frase suonasse: “Vi troverete gloria e preda”, e nel maggio 1796, a Binasco, un paese a metà strada tra Pavia e Milano, le truppe del generale Lannes incendiano il villaggio in rivolta ed uccidono più di cento abitanti, fra i quali donne e bambini.
Un mese prima la plebe di Verona era insorta contro una colonna francese; a maggio migliaia di contadini e artigiani avevano occupato Pavia e la città, tra il 25 ed il 26 maggio, era stata saccheggiata con selvaggio furore; a luglio si erano sollevati i contadini di Arquata Scrivia; nel febbraio 1797 erano scesi in lotta i contadini della Garfagnana e del Bergamasco; nel luglio 1798 si era verificato un tentativo insurrezionale in Valtellina; nel febbraio 1799 i contadini delle Langhe erano insorti contro l’annessione del Piemonte alla Francia.
Napoleone aveva ricevuto precise istruzioni dal Direttorio: “Il cittadino generale in capo riscuoterà nei paesi conquistati forti tributi di guerra, di cui una metà verrà versata nelle casse pubbliche e l’altra metà servirà a pagare in moneta la truppa”; e poi ancora: “Il cittadino generale in capo è invitato ad arricchire la capitale della libertà con i capolavori ai quali l’Italia deve la sua fama, allo scopo di aggiungere allo splendore dei trofei militari il fascino delle arti benefiche e consolatrici”. Ed il 12 maggio 1797, giorno della capitolazione, la Serenissima Repubblica di Venezia era stata costretta ad assistere impotente al sacco di moltissimi capolavori e all’umiliazione per la rimozione del leone di bronzo simbolo della città; in quell’occasione furono portati via pure i quattro cavalli di bronzo attribuiti a Lisippo, che ornavano la facciata della basilica di San Marco e che Venezia aveva sottratto a Costantinopoli dopo la Crociata del 1204.
Un decreto della Convenzione francese del 19 novembre 1792 aveva assicurato “fraternità e aiuto” a tutti i popoli in lotta per la libertà ed un provvedimento del 15 dicembre dello stesso anno aveva proclamato la libertà e la sovranità di tutti i popoli liberati con il sostegno delle armi francesi. In Italia, con le congiure giacobine di Napoli e di Bologna si era cominciato a dibattere il problema istituzionale di un nuovo ordinamento democratico, sempre più chiaramente modellato sullo schema realizzato in Francia.
Inoltre, la rivoluzione aveva sollevato grandi entusiasmi nella maggior parte degli intellettuali italiani, in un momento in cui la Penisola era pervasa da moti popolari che nascevano da profonde cause economiche e che testimoniavano la presenza di un malcontento generale ormai diffuso. Le rivolte erano esplose nella terraferma veneziana, in Piemonte, Sardegna, Toscana, Basilicata e negli Abruzzi. Nel regno di Napoli si erano tenute riunioni, probabilmente di contadini ricchi, i quali si dichiararono pronti a “fare come i francesi”, scrive Woolf, il quale aggiunge, però, che queste minacce e queste agitazioni rimasero dei fatti isolati, anche se, nella generale inerzia e passività delle masse contadine, gli eventi rilevarono una certa simpatia verso le idee della rivoluzione.
Ma le speranze dei patrioti erano destinate ad andare deluse e ben presto il comportamento delle truppe francesi suscitò l’ostilità della popolazione italiana. Woolf ci ricorda che alla Lombardia fu negato il diritto di costituirsi in repubblica e che a Campoformio nel 1797 fu ignorato l’espresso desiderio dei patrioti veneziani di unirsi alla Cisalpina, ma riconosce che solo le iniziative personali di Bonaparte sottrassero le province italiane a un regime di occupazione militare diretta.
La costituzione cisalpina, emanata l’8 luglio 1797 sul modello di quella francese del 1795, fu cambiata nel 1798 dall'ambasciatore francese Frondé, che, con la soppressione dei giornali e con la chiusura dei ritrovi e dei circoli politici, fece chiaramente intendere come i francesi fossero in realtà i padroni di quella Repubblica. Formalmente la Cisalpina era uno stato indipendente amico della Francia, ma il trattato di alleanza assegnava ai francesi il controllo della polizia ed un presidio militare di 25 mila uomini a spese del Direttorio Cisalpino.
Nella Repubblica Romana il nuovo governo fece il possibile perché si rimpiangesse l’ancien régime, scriverà Montanelli; il Vaticano fu svuotato persino dei suoi mobili e le leggi dovevano essere sottoposte alla preventiva autorizzazione delle autorità francesi. In Piemonte fu consentito alle truppe regie dei Savoia di far strage dei patrioti lombardi che volevano aggregare la regione alla repubblica Cisalpina. Stesso atteggiamento fu tenuto nei confronti della Repubblica Napoletana: i quattro delegati partiti il 15 febbraio 1799 da Napoli alla volta della Francia, con l’obiettivo di ottenere un atto solenne di indipendenza per la repubblica e una tassazione meno pesante per le province, una volta giunti a Parigi non furono neanche ricevuti dai rappresentanti del Direttorio.
I francesi si comportarono da conquistatori, è vero, ma le terre italiane si aprirono ad una lunga serie di novità giuridiche ed amministrative che, bene o male, penetrarono in tutte le regioni italiane e ne favorirono l’avanzamento civile.
Ebbe ragione lo scrittore tedesco J. Wolfgang Goethe quando disse che quella non era la fine del mondo, ma era certamente la fine di un mondo, e fu allora che nuove forze sociali, e con loro la borghesia agraria che si era formata sotto il regno dei Borbone, assunsero la parte di protagonista nelle vicende politiche meridionali ed avviarono quel processo che portò al Risorgimento ed all’Unità d’Italia.
© Sanmangomia.it - Webmaster: Pasquale Vaccaro