GIACINTO FALSETTI - AFRICA 1943

(Ricerche di Francesco Torchia)
(Elaborazione Pasquale Vaccaro)

 

Da una settimana gli americani hanno deciso di farla finita con la nostra inutile resistenza in Africa del Nord, hanno altri fronti più importanti. Verso gli ultimi di aprile ci invitano alla resa mediante milioni di volantini al posto di tante bombe, Mussolini è sordo come sordo è il suo compare, Hitler con le sue tre divisioni, che giorno dopo giorno firma biglietti per l’altro mondo, la mattina di giorno 4 abbiamo l’ultima scelta: o la resa o la morte.
Mussolini per noi sceglie la morte, lo stesso fa il suo compare e la morte arriva appena tramontato il sole, centinaia di bombardieri bombardano a tappeto, sono bombe incendiarie e dirompenti l’artiglieria che abbiamo tutta intorno fa il suo resto; la pazienza dell’avversario è finita, l’albero pecca ed i suoi rami ricevono, per giunta imperversa un temporale sembra che anche Domini dio vuole che d’un modo o nell’altro la partita sia chiusa.
Il giorno seguente gli americani forse vergognatesi di avere fatto troppo la parte del leone ci danno il tempo di medicare meglio i feriti, l’ospedale da campo è scomparso assieme ai suoi abitanti, per disinfettare usiamo succo di limone e bende, strisce di camicie, per i feriti più gravi ci pensano i tedeschi veri specialisti in colpi di grazia. E’ un disastro indescrivibile siamo in pochi contro tanti senza viveri e senza acqua l’unica sorgente di vita è saltata in aria, ci dobbiamo arrangiare nei pochi pozzi esistenti e la maggior parte è a secco mentre il restante sono avvelenati dai partigiani arabi. Intanto sfiniti soprattutto dalla sete dobbiamo tenere a bada 2 divisioni di colore che al comando di un generale della legione straniera avanzano senza onore e senza dio.
Cadere nelle mani di queste tigri è sicuramente un’atroce fine.
Giorno 8 maggio un gruppetto di volontari, di notte piantarono delle bandiere bianche sui punti di una altura, non fu un ordine ma una necessità: gli americani con altri volantini ci ordinano di distruggere gli automezzi perché centinaia di chilometri di deserto fra non molto c’è li faranno fare a piedi; e di fatti fu così.
La parola resa ormai si sentiva da per tutto, una angoscia che durò fino giorno 10 quando Mussolini, ordinò di distruggere automezzi e tutto l’armamento, e prepararci al calvario della prigionia, automezzi ed armi leggere imbevute di benzina e nafta furono di facile distruzione, mentre per i cannoni si dovettero riempire di sabbia le canne per farli esplodere.
Non ebbi il coraggio di buttare nel fuoco la mia piccola pistola che sempre chiamai Anita avendomi sempre seguito come la nobile Anita che seguì Garibaldi ed i suoi Mille. La camuffai con arte in fondo alla borraccia che tagliai in due risaldandola e ricoprendola con un panno grigio verde, e sopra l’isolante sempre un po’ d’acqua, facendo spesso fessi i più abili aguzzini: bianchi e neri.
La mattina del 12 maggio provenienti da più parti ci radunammo in una stretta valle in attesa che venissero i vincitori a fare altri conti sulla nostra pelle, il generale Giuseppe Messi ci fece l’ultimo discorso di circostanza, non volle l’attenti, perché l’onore senza armi e il simbolo dei vinti, lo stesso fece il generale tedesco Rommel detto la volpe del deserto, verso le 11 arrivarono i vincitori armati sino ai denti, un migliaio circa, la maggior parte neri e 2 generali partirono subito in due camionette e presero due vie diverse mentre noi come orfani restammo in balia di quelle pantere nere che ci fecero stare con le mani sul collo sino a tarda sera e quando tutto divenne buio si diedero al saccheggio, portafogli, orologi, anelli e denti d’oro finirono nelle sporche mani di quelle belve senza onoro e senza dio.
Io toccai più volte la mia borraccia: Anita dormiva.

GIACINTO FALSETTI-AFRICA 1943

 

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