GIACINTO FALSETTI
AFRICA 1946 - Anno del ritorno
(Ricerche di Francesco Torchia)
(Elaborazione Pasquale Vaccaro)
Dopo circa sei anni tolti all’età più bella della vita tristemente vissuti in una terra ardente e
selvaggia e disperata tra guerra e prigionia ecco la tanta sospirata realtà della libertà più volte messa in dubbio.
Come di fatti dubbia fu per tanti giovani vite che più non tornarono alla loro madre terra stroncati di
stenti e di miseria nei campi della morte dove l’uomo vinto E INDIFESO DIVENNE MERCE ASSOLUTA
DI CRIMINALI SENZA CUORE E SENZA DIO.
Il 26 maggio del 46 è un giorno uguale agli altri che da tempo viviamo nel campo n. 16 campo
della disperazione e della morte, dove di stenti si vive e di stenti si muore. Una campanella rudimentale
fatta in una tanica di benzina e fin dall’inizio appesa ad un ramo di un vecchio ulivo in mezzo
al campo punto di ritrovo ogni domenica dove un anziano cappellano militare distrutto e quasi impazzito celebra
la messa ogni domenica cercando di tenerci affratellati e vicini sempre a dio.
Il 26 maggio non è domenica è giovedì
ma la campanella suona come se fosse impazzita e subito pensiamo che ad impazzire è il nostro vecchio amico cappellano
distrutto da tanti stenti, tutti chiamiamo Don Abbondio quel vecchio prete che troviamo sul romanzo dei promessi sposi,
notiamo veramente che il nostro caro amico cappellano, giulivo e sorridente che con una mano suona la campanella
e con l’altra regge un crocefisso.
A circa 5° metri una commissione della croce rossa italiana, mai vista prima,
discute con il capo del campo, un vecchio capitano distrutto anche lui e che sta pagando in mezzo a noi l’orrore
di una guerra assurda e l’infamia inumana della prigionia, viene l’ordine di formare 6 centurie vale a dire 6 gruppi
di 100 uomini, ciascuno fu il primo scaglione a dare l’inizio ad una speranza quasi perduta. Il nobile cappellano
si rifiutò di rientrare con i primi, lo stesso fece il vecchio capitano, due nobili figure dell’animo
generoso, due valorosi cristiani fatti di pasta diversa dagli uomini dell’era duemila.
E’ così dopo tanto
quel maledetto cancello fatto di congegni di morte si aprì come un normale cancello lasciando passare
le prime 6 centurie di relitti umani anche le sentinelle scelte fra le più barbare della razza nera per
la prima e l’ultima volta ci sorrisero.
Una banda musicale ci suonò l’inno degli innamorati
( arrivederci bella tunisina) e fu allora che commossi e silenti ci avviammo per rivedere quel luogo
di sofferenze e morte, ma per dare l’ultimo addio ai nostri sfortunati compagni morti di stenti e sepolti
come cani sotto la sabbia rovente dello stesso campo dove la sfortuna non volle che anche loro vedessero
il giorno più bello della vita ( la libertà), muti e a testa bassa raggiungemmo il porto di Biserta, portando
con noi un triste fardello di mari ricordi e anche tanto odio verso i nostri carnefici senza cuore
e senza Dio.
La nave ammiraglio ci riportò nella madre terra dove un altro calvario si dovette
affrontare per la sopravvivenza, nella nostra terra resa impossibile dagli eventi di una guerra perduta.
Dove miseria e disordine divenne un altro nemico da combattere.
Impiegammo circa 40 ore da Biserta a Napoli
e quando il viaggio della speranza era in fase conclusiva ecco un altro scossone aggiunti ai primi.
Tra Pantelleria
e Lampedusa la nave si fermo quasi di colpo facendo scricchiolare tutta la sua struttura e tutti finimmo
con le gambe all’aria 3 grosse mine ci sfiorarono e si dovette attendere un caccia mine per farle esplodere
altro scherzetto di madre natura che pentita di avermi messo al mondo volle farmene provare di cotte e di
crude e qualcuno finì per malignare che quelle mine fossero state poste ad arte per mandare a bagno
marino un carico di rifiuti scadenti peggio dei rifiuti tossici dell’era duemila. Giunti infine al porto
di Napoli trovammo una accoglienza fredda ed indifferente solo una commissione della croce rossa si
premurò di noi e come omaggio volle darci 5 lame da barba e un panino; le lamette erano sciolte e non in
una confezione e messe alla prova, due su tre risultavano usate; A piedi raggiungemmo il campo profughi
dove mancavano solo le sentinelle nere, il resto lo lascio immaginare a chi leggerà questa ignobile storia.
Al campo profughi ci diedero 10.000 lire a testa che subito attirarono l’attenzione di tanti ladruncoli
napoletani e non furono pochi tafferugli questa volta razza contro razza ai più mal vestiti diedero
un vestito finto e per tutti una paio di scarpe di caucciù senza la possibilità di provarle o averne
la misura richiesta, al sottoscritto come a tanti altri capitarono due scarpe dello stesso colore
e dello stesso piede che subito buttai in faccia ad una specie di caporale.
Infine dopo tre giorni
di ignobile bassezza all’italiana ci diedero il biglietto ferroviario dove in tradotta raggiunsi Nocera Terinese.
Alla stazione di Nocera trovai tanta gente, la maggior parte contadini ma dei miei congiunti nessuno e qui il pensiero
fini per piombare in un abisso di sconforto anche perché erano tre anni di silenzio assoluto con i miei congiunti.
Un contadino di contrada ferole mi diede un passaggio sul suo carro tirato da due buoi e quando al bivio di Nocera
lasciandoci provai a regalargli 10 lire le rifiutò garbatamente e mi abbracciò piangendo: anche lui aspettava il
ritorno dell’unico figlio prigioniero.
Lungo la strada per S.mango non incontrai nessuno, sembrava veramente che
la guerra avesse inghiottito tutte le mie speranze lasciandomi solo nel futuro; in contrada salice incontrai
la prima gente: erano due giovinastri dall’aspetto forestiero ed ognuno proseguì il proprio cammino. Fatti
pochi passi vidi che anche loro avevano fatto lo stesso. Chi erano? Erano i miei due fratelli che il tempo
aveva cambiato l’aspetto ma non il sangue.
Una volta fra i miei mi resi subito conto che di sola libertà
non si vive e dopo soli tre mesi fui costretto ad emigrare in Francia.
Falsetti Giacinto-1946 anno del ritorno-
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