CARESTIA E DISCORDIE

Da ricerche di Francesco Torchia
 


L’anno 1763 restò memorabile per una carestia che condusse alle estreme necessità tutto il Reame. Questa carestia già si annunciava dall’anno precedente in cui l’inverno e la primavera non ebbero alcun beneficio di pioggia, e le campagne restarono arse. A ciò concorsero altre malefiche influenze dell’aria che colpirono la vegetazione ed impedirono il maturarsi delle biade e dei legumi per cui si ebbe una raccolta assai scarsa e non sufficiente alle necessità.

In quell’anno la fame minacciò ogni strato della popolazione, in ogni paese ed in ogni villaggio, tanto che il popolo per fare il pane ricorse ai lupini, alle cicorie, al finocchio selvatico e ad altra erbe. Ben presto la popolazione fu costretta a cibarsi di ciò che in altri tempi era riservato agli animali. La lotta per la sopravvivenza trasformava probi cittadini in potenziali ladri.

Ben presto il grano scomparve dalle zone di produzione ad opera di speculatori ed incettatori. La ricerca disperata del frumento da parte di tutti degenerò ben presto in una gara spietata ed in una lotta dura ed atroce per procacciarsi il necessario per sopravvivere e la violenza divenne la maniera naturale per salvare la propria esistenza dalla fame.

Nei paesi e villaggi il prodotto ricavato dal duro lavoro delle popolazioni venne requisito e solo pochi cedettero senza opporre la ben che minima resistenza. I più difesero con la forza della disperazione le poche scorte di grano esistenti.

I ribelli tuttavia vennero assolti in sede processuale in quanto era purtroppo giusto per diritto di natura e della gente, il difendere e vietare che non venisse estratto dal proprio paese quel che il proprio terreno aveva prodotto.

Nel territorio posto tra il fiume Savuto ed il Mancuso regnava uno stato di selvaggia anarchia e nel 1780 il giudice della Gran Corte Criminale di Cosenza d. Pasquale Perrelli fu inviato, per regio ordine, in queste terre per rendersi conto e riferire sulla entità della delinquenza.

Dagli scritti del magistrato si legge che i malviventi si sono resi mostruosi commettendo i più crudeli delitti che la perversità di un uomo avesse potuto escogitare. Solamente di omicidi si numerano circa ottanta eccettuatone molti altri seguiti tra  cittadini e cittadini, di cui non si fa parola perchè originati da discordie e private cause.

In Nocera spadroneggiava il delinquente Giovan Battista del Greco Mastroianni, il quale insieme al fratello Gennaro e ad una numerosa banda, si abbandonò a tanti ricatti e furti e irrefrenabili scorrerie finche pagarono la pena sotto  una scure. Le di loro teste furono portate in giro per le province.

Non di meno erano i banditi fratelli Mendicino (Antonio, Fortunato e Matteo)  i quali con spaventevole e grossa comitiva, fecero crudelissima strage di sangue umano raccontandosi una confusione di omicidi e perversità memorande. Un altro dei fratelli Mendicino, Giovanni, superò gli altri in efferatezza e crudeltà. Infatti, accoppiatosi in comitiva con altri compaesani, volle dimostrare maggiore ferocia dei suoi detti suoi fratelli. Franco ad uccidere gente, più facile a commettere furti, ricatti, scorrerie e omicidi: un vero e proprio oppressore della cittadinanza.

Non di meno erano Antonio Chirumbolo, Andrea Macchione, Giovanni Orlando, Antonio Maida. Tutti si resero colpevoli di esecrandi delitti. Tra le vittime si ricordano Porzia belsito (vedova) per aver resistito alle violenze del Chirumbolo ostinato a violargli l’onore”. Il dr. don Domenico Bonacci, Governatore della Corte di Nocera il quale venne ucciso di notte mentre dormiva in casa.

La violenza era pertanto diffusa considerevolmente in quella società,  e non è da escludere che sia servita anche per procurare ricchezza e potenza.

Si legge in una relazione ad limina del vescovo  Gennaro Guglielmini del 1740, sulla criminalità esistente nelle terre del circondario di Nocera dove “persistono gravi inimicizie che io non sono riuscito ad estirpare con salutari ammoniment,i nè la Regia Corte con le continue persecuzioni, per cui si commettono continue azioni delittuose anche a danno dei conventi”.

Ed è certamente in questo periodo che fu coniato il termine spagnolesco che è giunto fino ani nostri giorni il termine: spagnare, appagnare per gli animali che significava avere paura.

Scriveva il vescovo Giovanni Maria Monforte nel 1795 a proposito dei costumi della gente di San mango, Falerna, Castiglione e degli altri paesi dell’interno “l’indole violenta della gente , cosi radicata nell’ira e cosi incline alla vendetta che gli uomini sono continuamente assetati di sangue umano anche per lievissime ingiurie che credono rivolte a loro. Ma ciò che sopra tutto dispiace nella educazione cristiana di questa gente è il fatto che sono libertini ed abusano del concubinaggio, e le donnine si concedono ad ognuno. Cosi allevano figli naturali e spuri e non hanno alcuna vergogna, anzi si vantano di attribuirsi apertamente e con sfrontatezza questi figli. Per estirpare questa perniciosa  consuetudine chiediamo aiuto e consigli della Santa Sede”.

Analoga analisi faceva nello stesso periodo il Vescovo di Martirano: ” il popolo ignora la docilità e facilmente scivola nei vizi, non mancano i violenti per la cui salvezza ed emendazione non mi do pace. Pertanto uso dei rimedi appropriati alla sua indole sopra tutto per quanto riguarda l’istruzione nella dottrina cristiana e il freno delle bestemmie e dei pubblici scandali e delle depravate consuetudini”.

 Le nostre campagne, dunque, erano caratterizzate da una degradazione fisica e morale, la condizione dei contadini era delle più miserabili e la loro estrema indigenza si contrapponeva alla ricchezza degli avidi e ingordi proprietari.

Ingiustizia e corruzione, ignoranza ed impotenza generarono tra questa gente un costume di rinuncia e di lassismo. La miseria tra la popolazione, sia in campagna che nei paesi era spaventosa.

La prostituzione, nata dalla fame e dalla disperazione, divenne addirittura un mezzo per campare. “Le donne di piacere che per lo innanzi non si conoscevano, sorsero da per tutto”, si legge in una lettera di Michele Sarconi al Marchese di Sambuca, che la Calabria Citra è oggetto di miseria inesprimibile, e Calabria Ultra è la scena della più tragica desolazione della natura. La forza delle leggi è precaria e la giustizia si elude o si calpesta e non si teme dai ricchi.... fra cento persone, novanta sono miserabili non possidenti.

“Dotati d’un raro talento per giudicare il carattere delle persone alle quali essi sono ricorsi, furbi ed adulatori, essi sanno mettere in gioco tutti i mezzi possibili per raggiungere i loro scopi e se non ci riescono per le vie ordinarie, un colpo di fucile o di pugnale li ha ben presto vendicati dei torti ed inganni subiti. Sembrano selvaggi e vivono in piccolissimi tuguri che destano l’idea dei primi sforzi degli uomini per uscire dallo stato di natura. .....una popolazione di pastori selvaggi ed ignoranti. Gente che non capisce e non ha alcun principio di umanità e società. poco si conosce la giustizia e la vera religione. Scriveva giustamente Umberto Caldora in Calabria napoleonica che “il supino ossequio all’autorità costituita, la paura del potente, la forza di rassegnazione, il senso di fatalismo e la impressionante superstizione contribuirono a non sovvertire questa statica ambientale”.

Una vita meschina e selvaggia era quella che si viveva in ogni villaggio, specialmente in quelli più isolati e tagliati fuori da ogni contatto. E tra il clero non e che si stava meglio. Vi era una crescente rilassatezza dei costumi, degli scandali, della trascuratezza delle pratiche religiose, della diffusa ignoranza sia culturale che religiosa di quasi tutti i preti.

Quelli appartenenti alle famiglie miserabili sceglievano la carriera ecclesiastica per non morire di fame. Quelli che appartenevano a famiglie benestanti abbracciavano la carriera ecclesiastica con lo scopo di rafforzare il proprio potere sociale ed economico del loro casato.

Di origine spagnola era anche il ridicolo vezzo dei titoli: Don per gli uomini e Donna per le femmine, che simboleggiavano onore e nobiltà.

Erano pochi i sacerdoti che venivano definiti di “abilità” da parte dei vescovi. La maggior parte erano "ignoranti", “di nessuna abilità”, “di poca abilità". Sovente si sottolineava la loro trascuratezza, nel vestire e la loro mancanza di decoro, ubriachi, bestemmiatori e dediti al vino, in corrispondenza  con donne, liberi e lordi nel parlare e debosciati..

In San Mango il prete D. Bruno Manfredi, dimentico di essere un Ministro del Santuario, teneva in casa per serva Elena Trunzo, con la quale aveva procreato più figli” inutili erano risultati richiami e minacce.

Alcuni per racimolare qualche ducato, al fine di onorare i debiti contratti e per soddisfare la fame  vendevano una sola pianta del proprio terreno. Altri il terreno intero riservandosi su particolari essenze arborree l’uso del frutto. Taluni pur vendendo completamente il terreno, si riservavano una o più piante dalle quali raccoglievano la frutta con diritto di accesso al fondo. E’ il caso di un atto di compera vendita del 1792 del Notaio Manfredi nel quale il venditore Domenico Torquato, per sua necessità dopo la morte di sua moglie rimasto carico di debiti, con tre figli minori sulle spalle e senza alcun aiuto, per soccorrere ai suoi bisogni ed alimentare la prole, vendette due pezzotti di possedimenti di terreno in luogo detto la buda per estrema necessità familiare e si riservava  su gli stessi l’usufrutto su alcune piante di si gelso, fico ed altri alberi da frutto.

Forse non siamo lontano dal vero quando sosteniamo che tra i primi abitanti venuti ad abitare dopo il 1650 il nuovo casale non esistevano particolari differenze sociali, col passare degli anni, invece alcune famiglie riuscirono a conseguire una certa agiatezza, acquistando anche l’appellativo di magnifico.

Scorrendo i registri parrocchiali si ha l’opportunità di ricostruire gli alberi genealogici delle famiglie che diedero origine alla nobiltà locale, la quale sorta agli inizi del 700, si affermò soprattutto  dalla metà del 700 e  proseguì per tutto l’800.