IL BRIGANTAGGIO DI FINE 700

(Testimonianza che fanno Francesco Trunzo da Conflenti e Francesco Berardelli da S.Mango e raccolta dal Notaio Domenico Aiello da Nicastro).

Da ricerche di Francesco Torchia
 

 

Si era instaurato negli utlimi anni del secolo uno  vero e proprio clima di sopraffazione, di continuo ricatto e di paura e non pochi furono gli appelli esposti al Re per denunciare la drammaticità di una situazione che diventava a sempre più insostenibile. Tale situazione però non era del tutto nuova in quanto tutto il 700 era stato caratterizzato da diffusi atti di violenza e da soprusi di ogni genere.

La malvivenza era al colmo, furti e assassini venivano commessi giornalmente a mano armata sulle strade principali e nelle abitazioni di campagna; Gli scorridori di campagna commettevano i propri crimini sino alle porte dei maggiori comuni. In genere i briganti erano noti agli abitanti, ma nessuno osava denunciarli alla forza pubblica per timore di finire assassinato. Giornalmente scoppiava qualche rivolta particolarmente contro la gendarmeria. Ogni giorno di mercato, ogni giorno di festa era ordinariamente un giorno funesto per i gendarmi.

Nel 1792 una banda di briganti composta dai fratelli Giuseppe Antonio e Cesare Fazio di Gaetano e Durania e Francesco Fazio di Simone da Serrastretta nonché dai famosi Fabiano Fabiani, Sartorio Russo, il Repolino e Tingheo (dei quali ignoriamo la patria e di taluni il nome) percorrevano i nostri boschi, commettendo rapine e grassazioni si da intimorire la popolazione e renderla a loro soggetta.

Nel febbraio del suddetto anno, essendo venuto da Napoli Tommaso Oliva, giudice della Gran Corte della vicaria, reso edotto di un omicidio commesso in Nicastro, affidò il mandato di far distruggere detta banda ai capitani delle squadre di tutte le Terre e casali dello stato della illustre Principessa d’Aquino tra cui era Pietro Costanzo, Capitano di quella di Conflenti, ordinando loro di indurre i detti banditi di presentarsi oppure nel caso contrario, inseguirli, catturarli od ucciderli come meglio loro poteva riuscire.

Ciascuno colla sua squadra iniziò arditamente la sua impresa colla premurosa ansietà di una caccia. Si cominciarono quindi a perquisire tutti i luoghi della zona ed alla fine i malfattori vedendosi oppressi, parte si presentarono e parte furono uccisi. Rimaneva solo Tingheo, il quale aveva fedeli amici ogni dove; ma non tardò ad essere preso. Furono quindi replicate volte setacciati molti boschi, tra i quali quelli di Tiriolo e Marcellinara, dove più spesso si faceva vedere, ma invano.

Allora il capitano Costanzo, avendo scoperto che Tingheo colà aveva un fido amico  nella persona di Giuseppe Donato di Tiriolo, chiamò costui lo legò e sulle prime cominciò a percuoterlo con un bastone e minacciarlo di morte se non gli avesse consegnato Tingheo, o morto o vivo. Donato, per liberarsi di tale pericolo lo pregò di lasciarlo libero, perché era sua cura, entro lo spazio di 15 giorni, dargli nelle sue mani il famoso Tingheo.

Allora egli lo liberò e gli promise che non solo non lo avrebbe più maltrattato ma che egli avrebbe concesso una competente regalia; d’allora in poi Donato si pose in animo di tradire il suo amico. Mandò ad effetto il suo divisamento nella notte del 1° novembre di quell’anno, quando con tingheo si trovava in una sua pagliaia, nel fondo detto Scarfizzi in territorio di Tiriolo.

Dopo aver cenato e bevuto, il bandito si pose a dormire; mentre dormiva, donato gli tirò un colpo di scure alla testa e lo ferì gravemente. Dopo si diede alla fuga, sia per non essere ucciso, sia per annunziare il fatto a Costanzo, che lo attendeva. Questi subito insieme con la sua squadra, si fece condurre da donato sul luogo dell’avvenimento per trovare Tingheo, ma invano, perché il bandito, non essendo rimasto vittima, a sangue caldo, come sul dirsi, era andato nella borgata Accaria a ritrovare il suo compare Giovanni Gallo, perché dal medesimo fosse assistito per guarirsi, ed il detto Gallo essendosi consigliato col sig. Mario Torchia, lo indusse a venire in Serrastretta ove lo nascose dentro i magazzini della casa del principe; dove esso lo fece curare e lo tenne per due giorni. Ma nel terzo giorno disse a Tingheo che molte persone sapevano ch’egli era colà chiuso e quindi doveva presentarlo alla giustizia e così fece sapere che il fuorbandito Tingheo, trovavansi nelle sue mani, chiuso dentro i magazzini del Castello. Il Capitano Costanzo avvisato di tale notizia, subito si portò in Serrastretta, arrestò il bandito e lo menò in S. Eufemia dove si trovava il giudice inquirente dal quale fu esaminato. Ma la ferita del brigante era mortale, e a causa del viaggio s’incancrenì e lo fece morire.

Il cadavere fu fatto in vari pezzi, che furono situati in vari punti e la testa fu posta sulla cima del monte Portella tra Miglierina ed Amato.