DOPO IL TERREMOTO DEL 1783

LA  CALABRIA  LABORATORIO  POLITICO

(di Armando Orlando)

 

            Giuseppe Brasacchio, nella sua Storia economica della Calabria, scrive che "la Cassa Sacra, sclerotizzata dalla routine burocratica, non seppe e non volle affrontare il problema dell'eversione della proprietà ecclesiastica, nel senso di modificare l'antico regime fondiario e rinnovarne le strutture; le università, che pur rappresentavano la massa dei contadini, nulla poterono fare perché si operasse anche a favore dei ceti umili: l'organismo si muoveva attraverso il meccanismo delle aste pubbliche che era giuridicamente ineccepibile e le eventuali proteste dei contadini non avrebbero trovato alcuna possibilità di successo". Ed Enzo Misefari aggiunge che "il riformismo borbonico, fatto per "andare coi tempi", era calcolato: non doveva incidere sulle strutture ed era, come il riformismo in ogni tempo della borghesia, in funzione antirivoluzionaria. Esso fece le più grosse prove in occasione del pauroso cataclisma del 1783...".

            La Calabria laboratorio politico, abbiamo osservato in un precedente capitolo, ed il terremoto occasione di mutamento. Ma quali classi si avvantaggiarono degli eventi? E fino a che punto le aspirazioni dei ceti popolari e contadini furono realizzate? Per rispondere a queste domande citiamo ancora Misefari, il quale scrive che a subìre gli espropri, almeno di una buona parte delle loro terre, non furono i baroni, ma la Chiesa. Ed anche con l'istituzione della Cassa Sacra "era ancora tutto calcolato: le terre, stimate a basso prezzo, furono comprate dai nobili e dagli arricchiti; i contadini, privi di mezzi finanziari adeguati, restarono esclusi dalle aste, ed ancora una volta ebbero la prova che la borghesia li aveva ingannati".

            Pure Augusto Placanica scrive che i risultati della politica dell'intervento straordinario non furono pari alla speranza, e le spese di amministrazione quasi equipararono gl'introiti e talora li superarono. Come spesso è accaduto  - e come capita ancora oggi - le risorse destinate allo sviluppo della Calabria furono diversamente utilizzate, ed in quell'occasione le spese di gestione richieste dalle strutture burocratiche si rivelarono eccessive ed assorbirono gran parte delle disponibilità finanziarie. All'interno della Cassa Sacra, infatti, operò, secondo Placanica, un esercito di quasi trecento funzionari, i più alti provenienti da Napoli, alle dipendenze del ministro delle Finanze, responsabile naturale della Cassa. Così  740 mila ducati furono spesi per ricostruire opere pubbliche, mentre 448 mila ducati furono impiegati per coprire le spese di amministrazione. Il fallimento era ormai evidente e la pubblicistica del tempo si abbandonò ad una valanga di critiche. Alla polemica si affiancarono università,  vescovi e popolazione ed il 16 gennaio 1796 la Cassa Sacra fu disciolta, anche se i crediti da esigere ammontavano ancora a circa 321 mila ducati. Ciò non toglie che, pur con tutte le delusioni inevitabili davanti a un programma ambizioso, la sua attuazione rivelò che un certo rimescolamento di carte c'era già stato all'interno della società calabrese perché, conclude lo studioso, né la chiesa era ricca come un tempo, né tutte le famiglie di prestigio furono in grado di acquistarne le proprietà, mentre una nuova borghesia rurale si fece avanti per la prima volta, mettendo a frutto i propri contanti.

            E Pino Arlacchi aggiunge che l'azione della Cassa Sacra costituì senza dubbio il più grandioso progetto riformatore messo in atto dalla monarchia borbonica, e i suoi effetti contribuirono a formare una fisionomia della distribuzione della proprietà fondiaria nella regione destinata a durare fino al 1950.

            Il terremoto aveva riportato l'attenzione degli studiosi sui problemi della Calabria, dopo secoli di letteratura che descriveva la regione come una terra felice e ricca e che la mitizzava esaltando le glorie del passato. Si era avviato, allora, un serio esame delle condizioni generali di quei popoli, senza retorica e con conoscenza dei problemi. Le inchieste dei "vicari generali", gli interventi degli economisti e degli studiosi dell'epoca - testimonia Arlacchi  in un saggio del 1978 - non si limitarono a formulare piani di soccorso immediato, ma collegarono la tragedia ai "mali antichi" della Calabria, dei quali il terremoto non era che l'ultimo atto, arrivando infine a proporre rimedi di estrema radicalità.

            Ferdinando Galiani, economista e letterato nato a Chieti nel 1728, aveva pubblicato nel 1751 il trattato Della moneta, dove sosteneva la validità dell'inflazione controllata al posto della stabilità monetaria, anticipando così uno dei più importanti pensieri dell'economia mondiale. Lo studioso, pur rappresentando l'ala moderata del movimento riformatore, compilò tre memorie sulla Calabria che indirizzò al re sotto forma di pareri sui provvedimenti da adottare per ricostruire i paesi devastati. La  seconda di queste memorie traccia le linee generali di un piano di ricostruzione e di riordino amministrativo ed economico-sociale della regione, e data l'importanza del documento, riteniamo utile riproporne alcuni stralci, che riportiamo integralmente.

"La calamità della Calabria è stata tale, e tanto distruttiva, che offre il campo a poter spaziosamente formare un nuovo sistema di cose rispetto ad essa. Bisogna adunque profittare del momento per formare un piano generale del suo ristoramento da eseguirsi di passo in passo. Tre sono i mali grandi della Calabria ulteriore: 1) la prepotenza de' baroni; 2) la soverchia ricchezza delle mani morte; 3) la sporchezza, la miseria, la salvatichezza, la ferocia di quelle città e di que' popoli.

Dalla prepotenza de' baroni (che fu un tempo lagnanza generale di tutto il Regno) sono in gran parte liberate le altre province meno che questa Calabria ulteriore. Le cagion di ciò sono due, l'una è la grandezza, e il poco numero de' baroni a cui quella punta del Regno appartiene, l'altra è la gran distanza non solo dalla metropoli, ma anche dalla capitale della provincia... Tutto dunque dice ed annunzia che la prima operazione del nuovo piano abbia ad essere il divider quella provincia in due udienze; e come i nostri maggiori divisero Teramo dall'Aquila nell'estremità settentrionale del Regno, e se ne provò un gran bene, così bisogna dividere Reggio da Catanzaro nell'estremità meridionale... Ciò si dovrebbe far subito, e sotto colore d'aver bisogno d'un tribunale nel luogo ove è stata maggiore la ruina non potendo Catanzaro, che sta tanto lontano e separato da vie disastrosissime, eseguir con prontezza gli ordini della Corte... La vicinanza di un'udienza sarebbe un grandissimo freno per i baroni, ed un sommo sollievo per que' popoli...".

            L'obiettivo fondamentale del Galiani è chiaro, scrive Rosario Villari, ed è quello di ostacolare la ripresa delle forze feudali e parassitarie che ancora prevalevano nella vita sociale della regione. Alla fine del '700, infatti, le sei grandi famiglie che egli indica nella sua memoria  - Spinelli, Ruffo di Bagnara, Ruffo di Sinopoli, Gambacorta, Serra e Carafa -  non erano i "fantasmi" di un'epoca tramontata, ma rappresentavano la forza dominante della società, ed il loro dominio, favorito dalla vastità della provincia, era superiore all'autorità provinciale, diretta emanazione del sovrano. Per il secondo male, la ricchezza dei beni ecclesiastici, l'economista suggerì un atteggiamento radicale, assecondando la tradizione anticuriale che costituiva una parte fondamentale del pensiero politico napoletano. Ed in effetti, conclude Villari, l'istituzione della cosiddetta Cassa Sacra, che espropriò i beni di parecchi conventi calabresi, fu possibile appunto perché l'opinione pubblica reclamava un provvedimento di questo genere ed era preparata ad accoglierlo favorevolmente.

Leggiamo ciò che scriveva Galiani in proposito.

"Per rimediare alla eccessiva ricchezza delle mani morte, il tremuoto avvenuto offre molte opportunità. Primieramente è cosa troppo ragionevole che si vieti assolutamente il poter riedificare chiese, cappelle, conventi se prima non son rifatte le case de' privati, e sopratutto i molini, i trappeti, i magazzini, le cisterne, gli acquedotti, le locande, le stanze da situar i vermi da seta, e quanto riguarda il raccogliere e conservare i frutti della campagna, che sono la sola e vera ricchezza dell'uomo... Secondariamente si potrebbe coglier questa occasione per ripigliarsi il re tutto il feudale della Certosa di S. Stefano... Lo stesso si potrebbe fare a Soriano e a qualche o ricca mensa vescovile, o ricca ed inutile badia... Per terzo essendovi de' feudi in Calabria appartenenti alla Religion di Malta, si potrebbe far sentire al gran maestro che o la Religione pensi a far riedificare subito que' suoi feudi o il re se ne incaricherà esso e gli dichiarerà devoluti e ritornati alla Corona. Con questa intimazione saranno sicuramente i primi ad essere riedificati".

            Anche per rimediare alle condizioni di arretratezza della Calabria l'abate Galiani, che nei dieci anni di permanenza a Parigi seppe conquistarsi l'amicizia di enciclopedisti e filosofi come Diderot, Grimm e d'Holbach, indicò proposte e, partendo da quanto aveva già scritto nella prima memoria (la Calabria ultra tiene le sue città edificate a caso e senza giudizio...), formulò suggerimenti che prevedevano pure la richiesta di una legge per impedire la speculazione edilizia nell'opera di ricostruzione della regione.

"Per rispetto all'infelicità e sporchezza delle città calabre voglio avvertire una cosa essenziale, ed è questa, che la nuova strada intrapresa farsi in Calabria riusciva assai più lunga, malagevole e dispendiosa, perché si dovea torcer dal dritto cammino e dalle terre piane per condurla e farla passare per i luoghi principali. Oggi che questi luoghi sono in tutto atterrati, pare che prima di tutto si dovrebbe fare il disegno del sito per dove deve passare la gran strada regia, acciocché sia la più breve ed agevole ed incontri i giusti guadi de' fiumi, eviti le scoscese ecc. Quando il sito della strada sia disegnato, si trasporteranno i paesi, e si metteranno o sulla strada stessa o molto vicini, affinché ne godano il vantaggio. Dovrà farsi legge che non possa alterarsi il prezzo de' terreni da' proprietari, quando chi lo compra o lo censua faccia ciò per edificare ne' luoghi che dagli ingegnieri visitatori sia stato destinato".

            Quello che emerge da queste memorie, conclude Villari, è la connessione che Galiani suggerisce e sottolinea tra l'opera di ricostruzione e l'azione riformatrice, necessariamente intesa ad incoraggiare le forze veramente produttive ed in via di sviluppo, e ricorda il preambolo che l'abate stesso aveva scritto nelle sue proposte  per la Calabria dopo il terremoto del 1783, che erano le seguenti: "molte volte codeste calamità distruggono le nazioni senza risorgimento; ma, talvolta, sono principio di risorgimento e di riordinamento di esse. Tutto dipende dal come si ristorano".

            Ferdinando Galiani, avvertendo il Re che "è da aversi riguardo che le persone ricche potrebbero profittare dell'attuale ruina dei luoghi per ingrandirsi comprando a vilissimo prezzo i terreni delle case dirute e facendo censi perpetui", aveva colto l'essenza del problema, anticipando l'esito reale dell'intera vicenda riformatrice, contro ogni illusione dei riformatori radicali. Infatti, sottolinea Arlacchi, l'attacco ai beni della chiesa trova pieno consenso tanto nella nobiltà quanto nella borghesia agraria e mercantile. La nobiltà cercava da tempo di far deviare verso i beni ecclesiastici i colpi dei riformatori, e cercava inoltre ogni possibile occasione di vedere estinti o attenuati i numerosi debiti contratti con gli enti ecclesiastici. La borghesia vedeva anch'essa di buon occhio la possibilità di sottrarsi ai debiti nei confronti dei medesimi enti, e si sentiva attratta dai possibili investimenti in acquisti di terre ecclesiastiche. Solo i contadini, legati alla proprietà ecclesiastica con mille legami, di sostegno e di strozzamento insieme, non vedevano che pericoli in questo processo di imborghesimento dell'ultimo grande pilastro del mondo feudale sopravvissuto intatto agli sconvolgimenti dell'epoca borghese.

            La forte accumulazione fondiaria favorita dalla Cassa Sacra interessò tutti i riparti della provincia di Calabria Ultra. A Catanzaro oltre un terzo delle terre ecclesiastiche finì nelle mani di 25 proprietari in meno di dieci anni. A Nicastro ben 9 famiglie, fra le 16 considerate benestanti, intervennero nelle aste per l'acquisto dei beni. Ai contadini, esclusi dal gruppo esiguo dei piccoli proprietari, non restarono alternative. L'alleanza con le Università entrava in crisi ogni volta che ai comuni veniva chiesto  di contrastare le decisioni della Cassa Sacra, e gli amministratori borghesi non avevano alcuna intenzione di rompere la solidarietà di classe con i protagonisti del mercato fondiario, e non trovarono alcuna motivazione giuridica per una eventuale contestazione delle operazioni della Cassa, le quali, non bisogna dimenticarlo, si svolgevano in un clima di perfetta legalità, accettate dal clero e dal Papa, e si ammantavano di finalità sociali, come ricorda lo stesso Arlacchi.

            Scacciati dalle terre ed oppressi da un proprietario borghese molto più esoso e rapace di un padrone ecclesiastico, i contadini calabresi videro peggiorare le condizioni della loro vita, ed il solco che divideva la regione dal resto dell'Italia cominciò a diventare profondo. Anche se l'intervento del sovrano in Calabria non fu solo diretto alle opere pubbliche ed alla ricostruzione dei paesi distrutti o danneggiati dal cataclisma, ma si spinse fino ad adottare provvedimenti legislativi in direzione delle strutture sociali del tempo.

            L'azione del governo centrale fu, infatti, orientata verso il baronaggio, ancora forte e determinato a far valere le prerogative ed i privilegi acquisiti, e negli anni che vanno dal 1780 alla fine del secolo furono realizzate nel Regno alcune riforme, parziali ma significative scrive Anna Maria Rao: l'abolizione dei diritti feudali di passo, la divisione dei demani comunali, la soppressione della giurisdizione feudale nei feudi ecclesiastici e nei feudi ritornati alla corona per estinzione della linea di successione feudale. Gli interventi più importanti si concretizzarono in norme che abolivano il divieto di costruire mulini, trappeti e forni, favorivano la concessione dell'uso privato delle acque pubbliche, annullavano angarie e servitù feudali, legittimavano la sospensione dei pagamenti dovuti ai baroni e l'indipendenza dei parlamenti municipali. Ma come il governo di Carlo di Borbone, che era riuscito ad operare efficacemente contro l'ingerenza ecclesiastica, non ottenne analoghi successi nei confronti della feudalità, così  la monarchia di Ferdinando, dice la Rao, se chiamava i riformatori al governo, non aveva alcuna intenzione di mutare le basi dello Stato e della società di antico regime. E ciò ha rappresentato uno dei limiti del riformismo borbonico.

            Campagne immerse nella miseria che genera rozzezza - scrive Brasacchio - brigantaggio ed inselvatichimento, tessuto urbanistico fragile che inibisce la formazione di vere e proprie città, travaso di ricchezza dalla campagna ai centri abitati sono i connotati di un processo che in Calabria lascia esanimi città e campagne, mentre ignoranza e miseria continuavano ad avvilire e degradare moralmente la popolazione, generando il brigantaggio e l'ozio e sollecitando il trasferimento a Napoli di un numero eccessivo di lavoratori.

            "Poche erano le relazioni che allora passavano tra provincia e provincia, ed il calabrese - scrive M. De Augustinis - oltre di non conoscere gli usi, i bisogni ed i prodotti dell'abbruzzese, parlava di lui come parla dell'egiziano, del polacco e dello svedese... Ancora narrasi come nel passato que' pochi arditi ed intraprendenti calabresi che raramente nella metropoli dirigevansi per qualche grande urgenza, facevano da prima testamento".

            Le case del popolo, in prevalenza di forma quadrata e costruite con calce ed anche con creta, non rispondevano a nessun principio igienico o di comodità; a pianoterra, prive di pavimento, basse ed anguste, raramente provviste di aperture diverse dalla porta d'ingresso, servivano di asilo anche per l'asino, per il maiale, per le galline e per il cane, precisa Umberto Caldora. E la presenza di animali nelle abitazioni civili finirà per colpire tutti i visitatori stranieri. Semplice e grossolana era la foggia del vestire. Su una camicia ed una lunga mutanda di tela di lino, gli uomini indossavano un giubbetto senza maniche aderente al corpo ed una sopraggiubba di panno ruvido, fatto di lane grezze di pecora o di montoni, ispido come la pelle degli animali, con maniche; un calzone sino al ginocchio e calze di lana, bianche o nere, sostituite durante l'estate con altre di tipo leggero o eliminate del tutto. Le donne vestivano una lunga gonna ed un giubbetto elegantemente allacciato alla schiena, al quale attaccavano un paio di maniche ricche di nastri di seta intorno al giro della spalla. Di solito non portavano scarpe o le usavano senza calze; coprivano la testa con un panno di lana o di lino ripiegato. Nei paesi più ricchi i contadini portavano calzature di vitello chiodate; nei paesi più miseri il popolo faceva appena uso di rozzi cuoi, acconciati ai piedi con stringhe di canapa o di lino, oppure andava a piedi nudi. 

            Per la panificazione - continua Caldora - veniva impiegato il granoturco, di rado il frumento; nelle zone montane era diffuso l'utilizzo di farina di castagne e di avena. Altrove, come a S. Sofia e S. Demetrio, paesi albanesi, si usava il cosiddetto "mischio" composto di grano e orzo;  o, come a Carpanzano, il pane si faceva addirittura con  lupini. "Ne' luoghi montuosi e specialmente ne' circondari di Celico, Spezzano, Aprigliano, Rogliano, Scigliano e Carpanzano il pane è tutto di farina di castagne, o pure di segala. Nel rimanente della provincia di Calabria Citra vien fatto con la farina di frumentone, e si può dire che appena in Cosenza, Rossano, Corigliano e Cassano sia di frumento" testimonia un documento dell'epoca, e, secondo alcuni studiosi,  nell'intera regione due terzi della popolazione mangiava pane di lupini e di castagne.

            Il consumo della carne, frequente nelle famiglie dei possidenti e degli artigiani (quattro giorni alla settimana), nel mondo contadino era limitato soltanto alle feste religiose e a Carnevale. L'olio, abbondantissimo, non era estratto ovunque con cura; di scarso uso fra i ricchi, costituiva invece il condimento dei poveri ed era altresì adoperato per alimentare le lucerne. I legumi, buoni ed abbondanti, e gli ortaggi, venduti a vil prezzo, rappresentavano i cibi più comuni e più frequenti delle classi popolari; così la pasta, in parte manifatturata in casa, in parte fatta venire dalla costiera amalfitana. Nessun istituto provvedeva alla pubblica beneficenza. Rari erano anche gli ospedali, con esigue rendite e scarsa disponibilità di posti e, per quanto notevole fosse il numero dei medici (240 nella Calabria Citeriore e 344 nella Ulteriore), ben pochi erano veramente esperti nella professione.

            E per continuare la descrizione della Calabria lasciamo Caldora ed attingiamo ancora una volta dalle opere di Brasacchio. L'isolamento, osserva lo studioso di Crotone, evidente nelle relazioni pressochè inesistenti con le altre province del Regno, era purtroppo operante anche tra le province della stessa regione e tra i distretti della stessa provincia. Gli ospizi e gli orfanotrofi, potenziati sotto la spinta della commozione che aveva colpito il Regno a seguito del terremoto, spesso mancavano del necessario per assistere vecchi, fanciulli e malati. Le scuole mostravano carenze paurose e l'insegnamento, affidato ai religiosi, era spesso superficiale. A Cosenza, che pure era la capitale della cultura calabrese, le scuole non godevano la fiducia dei cittadini. I seminari diocesani erano gli unici istituti d'istruzione frequentati anche da giovani che non intendevano dedicarsi alla carriera ecclesiastica; tuttavia Oppido e Tropea erano stati chiusi dopo il sisma e molti altri apparivano in condizioni desolanti per la deficienza di mezzi finanziari e per la scarsa affluenza di alunni. Negli educandati femminili le fanciulle erano indirizzate allo studio della religione e dei lavori di ricamo. La borghesia perciò preferiva mandare i giovani alle scuole di Napoli o affidarli a precettori privati.

            Sul piano demografico, alla fine del Settecento solo Reggio (16.000) e Catanzaro (12.203) superavano i diecimila abitanti. Secondo i dati riportati nell'opera manoscritta di P. Di Simone e riferiti agli anni 1794-1796, seguivano Scigliano, che contava oltre 9.000 abitanti, Cosenza circa 9.000, Morano Calabro 8.352, Corigliano  8.286, Rossano 7.200, Monteleone 7.166, Nicastro 7.012, Acri 6.998, Fuscaldo 5.758, Mormanno 5.612, Crotone 5.540, San Giovanni in Fiore 5.166, Serra S. Bruno 5.020; nella fascia tra quattro e cinquemila abitanti si collocavano Castrovillari, Cassano, Belvedere, Cetraro, Paola, Longobucco, Aprigliano con Casali, Rende e Cirò. La popolazione risultava concentrata in massima parte all'interno della regione, dispersa - scrive Brasacchio - in una miriade di piccoli centri ubicati lungo la fascia pedemontana; nella Calabria centro-meridionale  l'8% viveva in piccoli borghi di meno di 500 abitanti; nella Calabria centro-settentrionale il fenomeno si ripeteva sui rilievi dominanti Cosenza, sui quali sono ubicati i numerosi casali. Nelle due province - aggiunge Villani - il 61% in Calabria Ultra ed il 58% in quella Citra si concentrava nelle classi tra 500 e 3.000 abitanti, e nella provincia settentrionale non vi era alcuna città con popolazione superiore ai diecimila abitanti. La provincia Citeriore risultava interessata da incrementi demografici più rapidi di quella Ulteriore, ed i dati disponibili indicano una cifra complessiva riferita alla regione di 725 mila abitanti nel 1775, di 750 mila nel 1788, dopo la catastrofe suscitata dal terremoto, e di 781 mila nel 1796.

            Tutto questo mentre la popolazione delle regioni meridionali superava complessivamente i quattro milioni di abitanti subito dopo la meta del secolo, per arrivare a cinque milioni nel 1793, e mentre in altre terre della Penisola Messina contava 49.504 abitanti nel 1798, Bologna 70.000 verso la fine del secolo, Firenze 73.951 nel 1751, Torino 90.163 nel 1777, Venezia 149.476 nel 1760. Palermo, con i suoi 150.000 abitanti, era la terza città d'Italia per popolazione; Roma la seconda con 160.000 e Napoli, con i suoi 408.991 abitanti a fine secolo, era la città più popolosa d'Italia. Milano, che all'inizio del secolo era la capitale di un Ducato con un milione di abitanti, caratterizzato da un'agricoltura debole, un'industria in declino e attività commerciali ridotte, arrivò a contare alla fine del secolo 130.000 abitanti e, come vedremo in uno dei prossimi capitoli, divenne un centro di importanza europea, grazie anche alle riforme attuate sotto il dominio degli Asburgo-Lorena.


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