I LIMITI DELLE RIFORME
NELLA CALABRIA DEL SETTECENTO
(di Armando Orlando)
Nel capitolo precedente abbiamo esaminato i diversi effetti che il movimento riformista ha prodotto nella Penisola. L'Italia era allora un insieme di stati e staterelli e non contava quasi nulla politicamente. Uscita smembrata dagli accordi che, nei primi anni del Settecento, avevano sancito la fine della supremazia spagnola e l'inizio dell'ingerenza austriaca, essa aveva raggiunto la stabilità verso la metà del secolo, con un nuovo regno a Napoli, affidato ai Borbone, equilibrato a Nord con un altro regno, quello di Sardegna e poi di Piemonte, istituito sui territori dei Savoia, ed in mezzo la Toscana e la Lombardia, entrambe austro-asburgiche, e solo Venezia, Genova e Lucca rimaste repubbliche autonome, ma vulnerabili, come dimostreranno più tardi gli eserciti di Napoleone.
Un paese in declino, scrive Philippe Daverio, dove però Maria Teresa, arciduchessa d'Austria, inizierà a coltivare un sogno, dopo aver concluso nel 1756 un patto d'amicizia con la Francia e dopo aver messo fine a secoli di ostilità portando le case d'Asburgo e di Borbone a promettersi aiuto militare reciproco. Milano e la sua pianura, infatti, potevano rappresentare per la corte imperiale di Vienna l'area di massimo reddito, dopo la rinuncia alle pretese sulla Slesia, con il conseguente sbarramento di ogni via di sviluppo verso il Nord. Ed è nei territori italiani che comincerà a guardare la figlia di Carlo VI d'Asburgo. In Lombardia, ma anche nel resto della Penisola, dove per via di famiglia, aggiunge Daverio, ella tenta di prendere il meglio d'Italia: una figlia regina di Napoli, un figlio granduca di Toscana, un'altra figlia a Parma e un figlio, Ferdinando, granduca e governatore in Lombardia, sposato all'erede di Modena. Si, proprio lei, la sovrana che grazie ad un complesso di valori aveva creato lo stato moderno austriaco, ora guadava all'Italia. Perché il centro di tutta la ragnatela, spiega Daverio, è Vienna, ma il brio stava a Milano, la città di Gluck, di Parini e di Cesare Beccaria, dove il Piermarini avrebbe costruito il più bel teatro dell'impero e dove la regina finirà per lasciare un'ottima testimonianza del suo governo. Personalità affascinante, quella di Maria Teresa, dotata di grande carisma, che "non vorrà mai il titolo imperiale perché le bastavano quelli che già possiede, d'Austria e d'Ungheria".
Ed in Calabria? Qual era la situazione, sul finire del Settecento, dopo il terremoto e dopo gli interventi effettuati per lenire le miserie della terra e degli uomini? Cosa rimaneva dopo l'illusione creata dalla breve stagione riformista che aveva coinvolto l'intero regno di Napoli?
L'ondata eversiva del patrimonio ecclesiastico aveva deluso le speranze e, sotto certi aspetti, aveva contribuito al peggioramento dell'economia della regione, e la geografia economica della Calabria agricola continuava a mantenere la fisionomia acquisita durante il viceregno spagnolo, con una diversificazione della produzione per zone. Nel corso del Settecento, spiega Giuseppe Brasacchio, la fisionomia si era consolidata in forme destinate ad arrivare fino ai nostri giorni, ad eccezione della gelsicoltura: Cosenza ed i suoi casali con la produzione di legnami, di fruttiferi, di fronda di gelso; la zona di Rossano e Corigliano con la produzione di olio; il Marchesato di Crotone con i prodotti zootecnici e con i cereali; il Vibonese ed il Catanzarese con produzione di cereali ma anche di gelsi, frutta, olio e vino; la piana di Rosarno con estesi oliveti e vigneti; il Reggino, dove il giardino mediterraneo trovò le più alte espressioni, con l'estensione della coltura degli agrumi. Nello stesso tempo compaiono in Calabria due nuove colture, il mais e la patata. La prima, proveniente dall'America tropicale e portata in Europa da Cristoforo Colombo, aveva contribuito a sfamare molte popolazioni, mentre la seconda, anch'essa di origine americana, era stata scoperta come prodotto alimentare solo di recente e la sua coltivazione era stata promossa dal re di Francia Luigi XVI.
Ma l'analisi degli ordinamenti colturali effettuata dal Grimaldi e le conclusioni esposte nel suo Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra mettono in evidenza l'arretratezza dell'economia e della società calabrese.
Domenico Antonio Grimaldi era nato a Seminara nel 1734, ed era esponente di un'antica famiglia di Genova, di tradizioni guelfe ed in esilio in Provenza, che nel 1297 aveva occupato la Rocca di Monaco dando inizio alla dinastia monegasca che dura ancora oggi e che ha visto il principe ereditario Alberto prendere il posto del padre Ranieri, deceduto nel 2005. In Calabria i Grimaldi erano giunti con il figlio di Raniero I signore di Monaco, Bartolomeo, il quale nel 1309 era stato nominato viceré sotto il regno di Roberto d'Angiò ed aveva dato luogo a vari rami, fra i quali quello dei signori di Polistena e di Seminara.
Domenico Grimaldi, che assieme al fratello Francescantonio è stato definito da Antonio Piromalli "figura emblematicamente e generosamente illuministica", aveva studiato a Napoli ed era stato allievo di Genovesi; nel 1767 era andato a Genova, dove aveva appreso nuovi metodi di lavorazione dei prodotti agricoli, e nel 1772 era rientrato a Seminara, con la speranza di poter applicare in Calabria le tecniche che potevano incrementare il rendimento della terra. Aveva viaggiato molto, Domenico; era andato in Provenza, scrive Francesco Cento, per studiare il modo per migliorare la qualità dell'olio, in Piemonte per approfondire la lavorazione della seta, in Svizzera e in Francia per assestare le sue dottrine in materia economica. E Seminara, ci informa Piromalli, divenne un centro di sperimentazione di macchine agricole straniere, di coltivazione degli agrumi, allora rari nel territorio, del grano saraceno (mais) fino ad allora ignoto, di navoni (rape saporite ben note a Genova), di capperi e di funghi. All'aratro locale, continua lo studioso della letteratura calabrese, Grimaldi sostituisce l'aratro mantovano, dopo l'aratura fa passare un cilindro sul terreno, apporta migliorie nella pastorizia, dedica estrema cura all'irrigazione secondo l'esempio delle fertili campagne padane e importa dalla Svizzera esperti in irrigazione. Cure particolari egli dedica all'olivo, la cui potatura in Calabria "faceva orrore" e il cui olio era pessimo a causa del sistema arretrato dei trappeti, e nel 1768 fa arrivare da Genova a Seminara periti fabbricatori d'olio.
Nel 1770 pubblica il suo Saggio scrivendo che l'economia calabrese era "un ammasso di vecchie costumanze mal intese", ma il suo pensiero non incontrò il favore dei signori feudali locali. Nel 1772 si dedicò personalmente alla conduzione delle proprietà di famiglia, mentre il fratello Francescantonio si era trasferito a Napoli per dedicarsi con profitto allo studio e le quattro sorelle si erano chiuse nel convento di clausura delle Clarisse a Seminara. Nel 1773 pubblica le Istruzioni sulla nuova manifattura dell'olio introdotta nel Regno di Napoli, ma solo a seguito di lunghe insistenze i principi di Roccella, di Cariati, il conte di Sinopoli, il marchese di Squillace e la duchessa di Cassano adottano il trappeto alla genovese per la morchiatura. Negli anni successivi continuò a pubblicare idee e proposte, avendo come meta finale la trasformazione dell'economia, da realizzare mediante l'introduzione di nuove e migliori colture. Istruire, migliorare, trasformare, scrive Piromalli, sono i concetti fondamentali di Domenico Grimaldi, le cui idee vennero esaltate da teorici illuminati come Salfi e dai riformatori incontrati a Napoli, dove Domenico risiedeva abitualmente dopo il terremoto del 1783, che aveva provocato la morte della madre e delle quattro sorelle e che aveva accelerato il dissesto finanziario dell'intera famiglia.
Sul piano politico, scrive Piromalli, Domenico Grimaldi aveva sperato nell'azione autonoma delle classi dirigenti ed era stato deluso, dopo aver speso rilevanti risorse finanziarie per attuare le riforme importando nuove macchine e facendo venire a Seminara operai genovesi esperti nelle nuove tecniche. Egli, aggiunge Cento, fu un riformatore cui sfuggiva la vera essenza dei rapporti di forza e di produzione del Settecento; concepì un movimento di riforma e modernizzazione della terra da portare avanti con il coinvolgimento delle classi sociali elevate; e le attenzioni rivolte ai contadini erano limitate al fattore dell'istruzione come elemento necessario per portare avanti le riforme, e non come parte integrante di un processo produttivo.
Ma oltre ai Grimaldi di Seminara, discendenti diretti della famiglia genovese che era diventata proprietaria del Principato di Monaco, un altro ramo deteneva in Calabria importanti possedimenti: erano gli eredi in linea diretta di quei Grimaldi che, assieme ai Ravaschieri, ai Cigala, ai Serra, ai Paravagna ed ai Cybo Malaspina erano venuti in Calabria al tempo degli Spagnoli e, grazie all'acquisizione di feudi, si erano trasformati da mercanti in proprietari terrieri. Col passare del tempo, in Calabria, i Genovesi avevano sostituito gli Ebrei nel monopolio del commercio e della lavorazione della seta ed avevano contribuirono a formare quella nuova feudalità di origine commerciale e finanziaria di cui tanto aveva bisogno la Corte spagnola per far fronte alle spese del suo Impero. Duchi di Terranova nel 1574, principi di Gerace nel 1609, marchesi di Gioia nel 1654, i Grimaldi, al pari degli altri feudatari, avevano badato allo sfruttamento delle rendite e non all'investimento di capitali, ed erano riusciti a mantenere i loro possedimenti anche dopo la caduta degli Spagnoli; nel 1759 Maria Teresa Grimaldi, figlia di Giovanfrancesco e della marchesa Maria Lucrezia Brignole, lascia Genova e si trasferisce a Napoli, dove prende possesso dell'eredità, del titolo di principessa, del palazzo partenopeo e del palchetto al Teatro San Carlo.
Erede del grande stato di Terranova, coi casali di Galatona, Molochio, Radicena, Rizziconi, San Martino e Casalbuono, della città di Gerace, coi casali di Antonimina, Canolo e Portigliola, e della terra di Gioia, oggi comune di Gioia Tauro, la principessa cominciò ad interessarsi di un feudo che complessivamente raggruppava 13 centri abitati con una popolazione di 12 mila abitanti. Spinta prevalentemente da esigenze di carattere finanziario, la Grimaldi inviò nelle sue terre calabresi l'agronomo Attilio Arnolfini, un nobile di Lucca studioso di economia e di idraulica, con il compito di verificare ogni possibilità di incrementare il volume delle rendite.
Arnolfini partì per la Calabria il 15 marzo 1768 ed il 26 marzo raggiunse le terre della Principessa. Al ritorno scrisse la Dissertazione sopra i feudi della principessa di Gerace ed altre note di viaggio nelle Calabrie del 1768, conservate nell'archivio di Stato di Lucca, ed un estratto dell'opera è stato pubblicato da Francesco Cento su Calabria Letteraria nel 2004.
Le proposte avanzate per rendere più produttive le terre feudali erano la bonifica del territorio, un fisco più equo, la crescita delle popolazioni locali, il miglioramento delle tecniche di coltivazione e dell'industria manifatturiera, evocando l'esperienza dell'agricoltura che si praticava in Lombardia, in Toscana e nella Terra del Lavoro. E di innovazione in Calabria c'era proprio bisogno, perché nella regione era sconosciuta persino la pratica della potatura degli ulivi, nella convinzione che gli alberi rendessero di più solo se lasciati crescere naturalmente. Ma nulla del programma proposto da Arnolfini fu attuato, e la principessa Maria Teresa trovò la morte nel suo palazzo di Casalnuovo (ora Cittanova) a seguito del terremoto del 1783.
Questo è ciò che riguarda la Calabria sul piano economico. Ma è nel campo culturale che la regione mostra vivacità e fermenti ed offre contributi significativi al riformismo del Settecento.
Nei capitoli precedenti di questa storia abbiamo scritto che a Napoli il rinnovamento culturale era stato promosso da Antonio Genovesi, titolare per vent'anni della prima cattedra universitaria europea di Economia Politica; e poi da Gaetano Filangieri, autore di una Scienza della Legislazione che si scagliava contro i privilegi baronali, e dall'abate Ferdinando Galiani, economista e letterato, autore di opere tradotte persino in Francia. Prima di loro Giambattista Vico e Pietro Giannone avevano aperto la strada agli illuministi napoletani, e le conseguenze di quell'opera di rinnovamento nelle terre del Regno non tardarono a manifestarsi.
In Calabria, scrive Brasacchio, la cultura conobbe, nel corso del secolo, una graduale evoluzione che la disancorò dal mondo angusto e chiuso dello scolasticismo e delle erudizioni astratte e municipali, aprendo nuovi e moderni orizzonti. Parte rilevante di questo rinnovamento culturale ebbero gli ecclesiastici, i quali non disdegnarono le letture anche non ortodosse, donde il gran numero di sacerdoti di rilievo, che ingrossano le fila dei massoni e degli illuministi calabresi.
L'inserimento della cultura calabrese nel circuito della cultura europea giungeva, secondo Gaetano Cingari, proprio negli anni in cui più stabile si faceva il rapporto tra la Calabria e la Capitale del regno e più frequente l'esodo dei giovani calabresi verso Napoli per il completamento degli studi intrapresi nelle province.
Il merito di aver avviato, nei primi decenni del Settecento, i fermenti di rinnovamento culturale vanno a padre Antonio Piro di Aprigliano, ad A. Marini di San Demetrio e ad Antonio D'Aronne di Morano, i quali determinarono, attraverso i contatti con il pensiero europeo, le premesse per la formazione di quegli spiriti liberi della seconda metà del Settecento. Ed è proprio nel decennio 1760/70 e negli anni seguenti che gruppi di giovani calabresi tornano da Napoli e portano nelle loro terre gli insegnamenti di Genovesi, Conforti, Cirillo. Tra questi giovani, ricorda Brasacchio, ci sono: Pietro Clausi di Rogliano, e dalla sua scuola cosentina escono giovani come Zupo, Spiriti, Bisceglia e Salfi; Giuseppe Raffaelli di Catanzaro, avvocato di grido, chiamato a stendere una memoria per il ministro Tanucci che fu alla base dell'abolizione di tutte le imputazioni legate all'accusa di sortilegio e titolare, a Milano, della cattedra lasciata libera da Cesare Beccaria; Domenico Antonio Gully di Chiaravalle; Domenico Condopatri di Rizziconi, e molti altri. Cosenza, Catanzaro e Monteleone diventano centri di diffusione del pensiero illuminista e tra il 1785 ed il 1790 sono presenti a Catanzaro Pasquale Baffi e Vincenzo De Filippis, futuri martiri della Repubblica Partenopea.
A questa vivacità non furono estranee le Accademie letterarie e poetiche. In Cosenza sorsero un'Accademia ecclesiastica ed una dei Pescatori Cratilidi, a Monteleone sorse la Florimontana degli Investimenti, a Maida quella degli Inquieti o Erranti, a Gerace la Colonia Locrese dei Pastori Arcadi.
In località lontane dai centri di cultura, testimonia Piromalli, le accademie ebbero il merito di mantenere vivo l'amore verso gli studi, di conservare le forme della tradizione, di ricollegarsi con le ricerche storiche al mondo del passato e in qualche caso riuscirono a innestarsi nella vita presente e a interpretare le più essenziali esigenze della cultura. Al rinnovamento dell'Accademia Cosentina si deve la ripresa culturale del secondo Settecento, continua Piromalli, il quale aggiunge che i movimentati ultimi decenni del secolo rendono più agitata l'atmosfera della vita e della cultura, mentre Salvatore Settis afferma che fu proprio il Settecento il secolo della riscoperta della Magna Grecia, grazie alle Tavole di Eraclea fatte affiorare da un aratro nel 1732, e grazie al dorico di Paestum, agli scavi di Ercolano e Pompei avviati dai Borbone e, in Calabria, grazie agli scavi di Locri, condotti a proprie spese da Domenico Venuti, allora direttore della Real Fabbrica Ferdinandea delle Porcellane.
Nel panorama della cultura calabrese del Settecento altri personaggi, oltre a quelli già citati, spiccavano per impegno civile e letterario.
Francescantonio Grimaldi, secondo Piromalli, fu soprattutto studioso, coltissimo, indagatore dell'uomo nella realtà e nella natura: si potrebbe dire il teorizzatore delle sperimentazioni e delle applicazioni del fratello Domenico. Mentre sullo sfondo dei tempi nuovi e delle nuove idee si muove la figura di Francesco Antonio Salfi, storico della letteratura, scrittore, patriota ed esule. Il Salfi, avviato alla carriera ecclesiastica, vive a Napoli a contatto con gli illuministi e gli uomini di ideologie più avanzate (Filangieri, Pagano, Palmieri, Pimentel) ed in quell'ambiente affronta il problema del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, difendendo i diritti dello Stato e auspicando un ritorno alla religione apostolica; la cultura è dal Salfi ricollegata alla capacità di intervenire nella realtà per sollevare i sofferenti, per dare ordine alle idee, per creare razionali principi.
E poi Leonardo Vinci, un musicista calabrese nella Napoli asburgica sul quale si è soffermato di recente Armido Cario, il quale, dalle colonne di questa rivista, ne ha messo in evidenza le doti di profondo innovatore, perché all'ombra del Vesuvio l'artista nato a Strongoli aveva fatto diventare l'opera buffa un fenomeno di massa, ispirato al canto e al ballo popolare, modificando così il tradizionale e vizioso rapporto tra arte e potere. Tommaso Aceti, nato a Figline Vigliaturo nel 1687, sacerdote e vescovo che ricoprì la carica di correttore della stamperia vaticana, famoso anche per aver aggiunto annotazioni storiche e topografiche alla celebre opera del Barrio sulla Calabria. Gregorio Aracri, nato a Stalettì nel 1749, il quale studiò teologia a Roma e a Napoli; coltissimo nelle lingue antiche e moderne, fu amico di Pagano, Filangieri e Grimaldi; insegnò filosofia e teologia nel seminario di Oppido Mamertina e filosofia e matematica in quello di Catanzaro. Pasquale Baffi, nato a Santa Sofia d'Epiro nel 1749, il quale studiò nel Collegio di S. Demetrio Corone e all'età di 18 anni vinse la cattedra di lingua greca e latina a Salerno; insegnò nel Collegio della Nunziatella; bibliotecario reale nel 1786, ottenne l'incarico di decifrare i papiri ritrovati negli scavi di Ercolano.
Francesco Bugliari, nato a Santa Sofia d'Epiro nel 1742, fu ordinato prima sacerdote e poi vescovo; trasferì il Collegio italo-greco nel monastero di S. Adriano a S. Demetrio Corone e organizzò l'istituto su basi nuove, chiamandovi ad insegnare sacerdoti di sicura fede patriottica. Francesco Lomonaco, nato a Montebello Jonico nel 1722, fu avvocato, medico, giornalista e scrittore; a Parigi conobbe Alessandro Manzoni giovane, che gli dedicò la sua prima composizione poetica. Antonio Minasi, nato a Scilla nel 1736, discepolo di Genovesi, vestì l'abito domenicano e dal Papa fu nominato professore di botanica alla Sapienza di Roma; il re Ferdinando di Borbone gli affidò l'incarico di studiare il fenomeno del terremoto; si schierò contro gli abusi baronali e sostenne i suoi concittadini nella causa contro il principe di Scilla. Giuseppe Maria Muscari, nato a Sant'Eufemia d'Aspromonte nel 1713, vestì l'abito dei monaci basiliani ed arrivò all'incarico di procuratore generale dell'ordine; il papa Pio VI lo nominò abate perpetuo di S. Basilio a Roma. Giovanni Andrea Serrao, nato a Filadelfia nel 1731; a Roma entrò nell'ordine dei Filippini di S. Girolamo della Carità; diresse il seminario di Tropea ed insegnò storia sacra all'Università di Napoli; fu vescovo a Potenza. Salvatore Spiriti, nato a Cosenza nel 1712, ricoprì a Napoli la carica di consigliere del Supremo Magistrato del Commercio; fu anche giudice della Gran Corte della Vicaria, segretario del Regno e regio Consigliere. Michele Torcia, nato nel 1736, letterato e filosofo, discepolo dell'abate Genovesi e collaboratore del giornale "Monitore Napoletano" fondato da Eleonora de Fonseca Pimentel.
E poi ancora Gregorio Lamannis, studioso delle condizioni giuridiche ed economiche della Sila, Giuseppe Spiriti, economista, Onofrio Colaci, magistrato, Domenico del Toro, critico della Cassa Sacra, ed altri che non abbiamo citato in questa sede perché troveremo i loro nomi nei capitoli successivi, alcuni dei quali tra i martiri del 1799. Scrive Placanica che la cultura calabrese, fino a poco tempo prima, era stata caratterizzata da un forte sostegno prima al governo austriaco e poi a quello borbonico, seppure in presenza di cospicui elementi di natura anticuriale e antifeudale; i primi segni di insofferenza verso il governo e verso la Corte si andarono, pertanto, sviluppando con la diffusione della letteratura dei Lumi d'origine francese, delle opere dei riformatori napoletani (Genovesi soprattutto) e, infine, delle logge massoniche, attive grazie al proselitismo di Jeròcades e dei suoi seguaci.
La maturazione di questi uomini è avvenuta, secondo Cingari, attraverso particolari esperienze individuali che hanno portato ad acquisire una nuova sensibilità culturale, seppure lentamente e attraverso molteplici adattamenti con la tradizione; quello che è mancato, però, è stato un cosciente inserimento di queste nuove istanze culturali sopra un terreno di decisa battaglia per la disgregazione del vecchio assetto sociale e politico. Ma pur con questi limiti, conclude lo studioso, la cultura calabrese riesce a rompere l'involucro della tradizione e ad acquistare una nuova coscienza derivante dal pensiero illuministico europeo ed italiano, con un anelito di rinnovamento che non mancherà di provocare, in futuro, esperienze politiche più mature.
Era il tempo in cui iniziava il processo di decadenza del baronaggio ed i ceti emergenti, che costituivano la borghesia, approfittavano della crisi della proprietà feudale e si irrobustivano con gli affitti, gli appalti, l'usura e l'occupazione di terre comunali, senza riuscire, però, ad imprimere al processo produttivo una nuova organizzazione, capace di rompere il vecchio sistema. Tutto ciò nonostante l'illuminismo calabrese portasse un'impronta propria della matrice napoletana e, man mano che il movimento si inoltrava nel Settecento, la problematica maturava nuovi orientamenti sul terreno concreto della società civile e sulla tecnica. E se gli illuministi calabresi esaminarono i problemi della regione attraverso analisi che rimangono coerenti nel più vasto quadro di un riformismo europeo, Galiani e Galanti, a seguito delle visite effettuale nella Calabria (e sulle quali abbiamo scritto nei capitoli precedenti) formularono, invece, proposte tese a rovesciare le strutture dell'antico regime per creare un nuovo assetto della società e dell'economia.
Ma al di là della considerazione che l'illuminismo non riuscì a trovare una mediazione efficace tra il piano della proposta tecnica settoriale e concreta ed il piano della contestazione globale e ideale del sistema, resta il fatto, per dirla con Giuseppe Galasso, che esso rappresentò sostanzialmente una cultura di élite che, pure in Calabria, non riuscì a permeare la base della società e non riuscì a smuovere un baronaggio chiuso, dice Brasacchio, ad ogni soffio di rinnovamento e proteso alla conservazione ad oltranza.
Il pensiero illuminista napoletano non ebbe successo durante il periodo borbonico, scriverà Silvio de Majo, perché non aveva alle spalle una classe borghese veramente forte, consapevole, diffusa e compatta. In questo contesto i contadini, scacciati dalle terre ed oppressi da un proprietario borghese esoso e rapace, videro peggiorare le loro condizioni di vita ed il malcontento cominciò a preparare la rivolta.
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